Se alla fine dell’Eocene, nella zona oggi corrispondente a Monte di Malo, già si assisteva a significativi mutamenti nelle condizioni climatiche e ambientali, oltre trenta milioni di anni dopo questi avevano toccato il loro culmine con la continua alternanza di fasi glaciali e interglaciali che caratterizzarono il Pleistocene.
Per sopravvivere, molti grandi animali seguivano l’andamento di queste cicliche variazioni del clima radunandosi in massa nelle praterie che avevano da tempo soppiantato le distese d’acqua priaboniane e lasciandovi le proprie vestigia con la loro morte.
Con l’avanzata dei ghiacci, il bisonte della steppa (o Bison priscus) si spostava in grandi mandrie imponendosi come l’erbivoro prevalente di quest’area ma, ad un certo punto, anche un altro ruminante, assai più familiare agli uomini del XXI secolo, osò spingersi in quegli stessi territori in occasione di esigenze molto particolari…
LA SCOPERTA
Nel 1950, il ritrovamento di alcune ossa nei sedimenti ghiaiosi di una piccola grotta situata nella cava Panizzoni, presso la Contrada Gecchelina, aveva fatto notizia.
Per alcuni anni la cava fu luogo di uno scavo paleontologico condotto dal Museo di Storia Naturale di Verona e dall’Università degli Studi di Ferrara, con il contributo di Renato Gasparella.
L’intento era quello di raccogliere quanto più materiale possibile per comprendere l’effetto che ebbero le fasi glaciali nella regione tra la fine della prima parte del Pleistocene, chiamata età galeriana (circa 1,82 milioni di anni fa), e l’ultima glaciazione nota Würm e conclusasi attorno agli 11.700 anni fa.
I reperti recuperati nel corso delle ricerche permisero di identificare una discreta varietà di mammiferi e di uccelli che si susseguirono nel corso di queste glaciazioni.
Le prime ossa a emergere appartenevano al bisonte della steppa e ad una specie di arvicola estinta (Pliomys lenki).
Le informazioni faunistiche si arricchirono ulteriormente con la registrazione di alcuni resti di lupo seguiti da ossa frammentarie di orsi, cervi, cinghiali e urogalli.
In quella stessa grotta si celava, però, un altro mistero che gli scienziati avrebbero dovuto svelare al momento della sua scoperta, avvenuta nel 1957.
Questa volta si trattava uno scheletro, piuttosto integro, di un’alce (Alces alces) del Pleistocene, un erbivoro la cui specie oggi risiede principalmente ai margini delle foreste boreali della Scandinavia, della Siberia, della Mongolia e del Nord America.
Dotato di lunghe zampe che lo rendono anche un ottimo nuotatore, l’alce odierna è un cervide dal muso tozzo e dal temperamento schivo che raggiunge al garrese un’altezza compresa tra 1,2 e 2,3 metri e un peso di 400-800 kg: i maschi, di solito, superano in stazza le femmine e sfoggiano dei palchi di forma palmata che possono raggiungere i 2 metri di ampiezza.
Nell’epoca contemporanea le sue dimensioni lo rendono il più grosso cervide in circolazione eppure in un contesto come quello pleistocenico dovette coesistere con specie simili ma ancora piùimponenti.

TRA I CERVIDI DELL’ERA GLACIALE
Nell’Eocene e nell’Oligocene si hanno poche notizie riguardanti gli antenati dei cervidi: uno di questi era il Leptomeryx che somigliava per aspetto e dimensioni all’attuale tragulo.
Poi, dal Miocene si segnalano varie specie di cervidi di dimensioni talvolta ragguardevoli, compresi i primi rappresentanti della sottofamiglia Capreolinae alla quale oggi appartengono la renna e l’alce.
Il robusto Libralces somigliava a una renna ma i suoi palchi, di oltre due metri di ampiezza, avevano una forma palmare che suggeriscono una sua maggiore affinità con l’alce.
Il Cervalces, o cervalce, poteva toccare i 2,1-2,5 metri di altezza e la tonnellata di peso arrivando a contendere il titolo di cervide più grande mai esistito al megalocero, un parente gigante del daino.
Se ne conoscono tre specie: due eurasiatiche (Cervalces carnutorum e Cervalces latifrons) e una nordamericana (Cervalces scotti).
Anche in Italia si conoscono resti di questo grande erbivoro compreso un cranio, di almeno 115.000 anni, ritrovato nelle Fornaci di Ranica (Bergamo) dal quale sono stati persino prelevati dei pollini fossilizzati.
In generale, presentava un muso piuttosto allungato ma nel complesso non differiva particolarmente dall’alce essendone, infatti, il diretto progenitore.
E guardando all’alce vero e proprio, sembra che una possibile forma estinta (Alces gallicus) si aggirasse in Europa 2 milioni di anni fa, in età galeriana.
Ma è dall’Asia centrale che, a partire da circa 770.000 anni fa, si attesta con sicurezza la presenza di alci affini a quelle odierne. In Nord America, invece, si fecero attendere fino a circa 15.000 anni fa.
Nel corso del Pleistocene, pertanto, cervalci e alci convissero negli stessi ambienti e, data la stretta parentela, è probabile che ci siano stati incroci.
Ma bisogna pure considerare che aleggia ancora una certa confusione nella classificazione delle varie specie di cervidi preistorici: alcuni, ad esempio, ritengono che Alces gallicus sia in realtà ascrivibile al genere Libralces o Cervalces mentre altri propongono addirittura di collocare questi ultimi direttamente all’interno del genere Alces.

IL MISTERO DI OLIVIA
Nel regno di quei fieri giganti dalle grandi corna, fece capolino la nostra alce, rivelatasi essere una femmina subadulta ad un esame più approfondito.Olivia (così chiamata in uno stravagante riferimento alla legnosa ragazza dei cartoni di Braccio di Ferro per via del suo aspetto “smagrito”) rappresenta tra i resti fossilizzati di alce più completi che siano mai stati rinvenuti in Italia ma restavano ancora da chiarire le cause che ne avevano permesso la conservazione.
Il fatto che non ci fossero fratture o segni di morsi escludeva la possibilità di un’aggressione da parte di lupi o di altri predatori.Un’informazione molto utile è, invece, emersa dallo studio dell’ambiente in cui l’animale si trovava in quel momento: gli indizi raccolti hanno permesso di ipotizzare che proprio in quell’area si fosse formata un’area prevalentemente stepposa, dove gli alberi crescevano solo in alcuni punti sparuti.
Queste “praterie del gelo”, che nell’ultima glaciazione raggiunsero la massima estensione, costituivano l’habitat ideale per bestie della tempra di un Bison priscus ma per un’alce pleistocenica la faccenda era un po’ diversa.
Osservando gli esemplari attuali, si può notare come questi cervidi, per quanto abituati al freddo, prediligano territori con maggiore umidità e varietà di piante.
E neppure le forme estinte erano da meno: l’analisi dei pollini riscontrati nel cervalce delle Fornaci di Ranica ha, infatti, dimostrato una preferenza ad ambienti boschivi e paludosi.
Pertanto, l’arrivo del gelo più opprimente doveva costringere questi animali a migrare più a sud, in direzione di zone con climi temperati e ciò potrebbe spiegare come mai la stessa Olivia si trovasse in un punto collocato al di sotto dei Monti Lessini al momento della morte.
Ma non è tutto poiché le ossa di alce ritrovate durante gli scavi a Monte di Malo non appartenevano solo alla femmina ma anche ad un feto, caso molto raro in paleontologia ma che, allo stesso tempo, sottolineava l’avvenimento di una tragedia di cui non si conoscono ancora i dettagli: un’ipotesi suggerisce che il povero animale morì, se non durante il parto, nelle fasi finali della gestazione.
Un altro mistero su Olivia riguarda la sua precisa età: le prime stime la collocavano intorno ai 50.000 anni fa, quindi durante la glaciazione di Würm, ma altre analisi suggeriscono che il cervide ritrovato potrebbe avere persino 500.000 anni e sarebbe dunque vissuto verso la fine dell’ancor più antica glaciazione di Günz.
Una simile discrepanza è in parte dovuta al rimescolamento dei dati geologici per effetto dei movimenti dei ghiacci e, pertanto, si è cercato di rintracciare nel fossile qualche traccia organica rimasta allo scopo di facilitarne la datazione ma al momento i risultati sono stati negativi.
OLIVIA E I SUOI SIMILI, 50 (O 500?) MILA ANNI DOPO…
Ad ogni modo, nei millenni successivi alla morte di Olivia, la sua specie avrebbe assistito ad una serie di eventi inaspettati con la fine dell’era glaciale e la definitiva scomparsa della megafauna di cui facevano parte il bisonte della steppa, il megalocero e il cervalce.
Ad ottenere l’eredità di quest’ultimo fu proprio l’alce che, spostandosi verso nord, si adeguò agli odierni ecosistemi europei.
Nel Medioevo se ne potevano ancora vedere nelle foreste dell’Europa centrale e persino lungo l’arco alpino e, sebbene oggi il suo areale si sia ridotto per via delle interferenze umane, l’alce continua a essere piuttosto comune nelle località in cui abita.

E come i suoi discendenti, anche l’esemplare ritrovato a Monte di Malo poté riprendere un proprio “viaggio” assieme al piccolo mai nato: dopo l’estrazione, infatti, una parte delle ossa andò al Museo di Storia Naturale di Verona e un’altra all’Univerità di Ferrara dove rimasero per molti anni.
Nel 2001, i due fossili vennero ricomposti in una sala appositamente allestita per il Museo Paleontologico di Priabona (poi ribattezzato Museo del Priaboniano) mentre il soprannome di Olivia venne attribuito all’alce femmina in maniera ufficiale. Nel 2018, si ha, infine, il trasferimento definitivo all’interno della nuova sala del Quaternario divenendone il simbolo.
Ora Olivia divide la propria fama con il grande Otodus sokolovi quasi a simboleggiare una doppia istantanea della Preistoria del territorio, quando da un mondo sommerso si passò a una terra di bisonti.
Illustrazione e testo di Lorenzo De Vicari a nome di Fumetti Fossili, pagina a tema paleontologico visitabile sia su Facebook che su Instagram.
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