Verso la fine del Pliocene (2,7-2,58 milioni di anni fa), il gelo avvolse gradualmente la località di Monte di Malo proprio mentre tutta l’Italia settentrionale iniziò a venire ricoperta da una coltre di ghiacci.
Questa si ritirò nell’arco alpino con un aumento di temperatura verificatosi agli inizi del Pleistocene (circa 2,3 milioni di anni fa) per poi scendere nuovamente a valle attorno agli 1,82 milioni di anni fa.
Dunque, l’intero Pleistocene fu caratterizzato da una continua alternanza di fasi glaciali e interglaciali, dalla cronologia spesso incerta, che indusse molti animali a compiere spettacolari migrazioni in base alle loro esigenze.
Quando l’avanzata dei ghiacciai si faceva incombente, il rinoceronte di Merck, il rinoceronte etrusco e molte altre creature abituate a climi caldi o temperati migravano verso sud e lasciavano momentaneamente i loro vecchi territori a specie che sopportavano meglio il freddo quali il rinoceronte lanoso e certi mammut dal pelo folto.
Tra i mammiferi preistorici, il bisonte della steppa (Bison priscus) fu quello che meglio si adeguò ai rigori delle glaciazioni e, come dimostra l’abbondanza di fossili, trovò a Monte di Malo e nel resto dell’area vicentina il terreno ideale dove poter pascolare fino a diventarne l’erbivoro predominante durante quei periodi particolarmente gelidi.
UN BISONTE ARTICO
Evolutisi parallelamente agli antenati dei nostri bovini domestici sin dal Miocene, i bisonti si dimostrarono particolarmente resistenti alle basse temperature e quello della steppa portò all’estremo questa caratteristica.
Questo peculiare ruminante polare raggiungeva i 2-2,2 metri di altezza al garrese, i 2,7-3 metri di lunghezza e un peso compreso fra i 700 e i 1.500 kg mentre le sue corna misuravano mezzo metro ciascuna e distavano fra loro di circa un metro, risultando quindi molto più larghe di quelle dei suoi corrispettivi odierni,
Erano dimensioni decisamente rispettabili ma una sua sottospecie euroasiatica, il Bison priscus gigas, si spinse anche oltre con un’altezza di 2 metri e mezzo per un peso di 3 tonnellate e un’ampiezza complessiva delle corna di 2,1 metri, da punta a punta.

In risposta alle basse temperature a cui era abituato, il suo corpo era ricoperto da una folta pelliccia e presentava una gobba molto più voluminosa rispetto a quella di altri bisonti e sorretta dalle elevate spine vertebrali.
Ma la sua caratteristica più insolita risiedeva nella dentatura, talmente robusta da sminuzzare con facilità le erbe e gli arbusti più coriacei.
Ciò lo rese un assiduo frequentatore delle steppe (un nome, un destino) e degli spazi aperti tipici delle zone artiche con un livello di specializzazione al freddo superiore a quello di qualsiasi altro mammifero erbivoro, incluso il mammut lanoso che, invece, poteva sopravvivere anche in luoghi dal clima più mite.
Le fasi glaciali del Pleistocene, con la conseguente espansione del suo habitat prediletto, rappresentavano per il bisonte della steppa un’occasione ideale per potersi avventurare fuori dalla Siberia e raggiungere aree dell’Europa e del continente nordamericano di solito rese inaccessibili dalla presenza di zone boschive.
Ma non appena la situazione si ribaltava con le fasi interglaciali, esso ritornava alle latitudini più settentrionali dove poteva continuare a trovare il suo abituale sostentamento mentre altre specie affini dei climi caldi ne approfittavano per potersi espandere.
In Nord America, ciò accadeva con il bisonte gigante (Bison latifrons), un colossale brucatore dalle corna ricurve e allungate (2,13 metri di ampiezza), e con il massiccio bisonte antico (Bison antiquus), alto fino a 2,3 metri.
Quest’ultimo fu il diretto predecessore dell’attuale bisonte americano (Bison bison) al quale somigliava parecchio nonostante fosse più grosso del 25%.
Osservando, invece, l’odierno bisonte europeo (Bison bonasus) si può notare come questo abbia mantenuto l’imponente stazza e parte dell’aspetto del bisonte della steppa ma la sua preferenza alle foreste con temperature miti indica una maggiore affinità con un’altra specie estinta dalle dimensioni più contenute (1,7-2 metri di altezza), il bisonte delle boscaglie (Bison schoetensacki).
Dai fossili sappiamo che, nelle loro frequenti migrazioni, le due specie ebbero modo di incontrarsi momentaneamente ed è probabile che ci siano stati incroci.
Tuttavia, il materiale genetico relativo al bisonte delle boscaglie è piuttosto scarso per poterlo stabilire con certezza. In compenso, l’analisi del DNA ha rivelato che anche il possente uro (Bos primigenius) rimase coinvolto in queste “passioni amorose” in quanto un buon 10% del codice genetico del bisonte europeo deriva proprio da questo enorme bovino.

CHI LO CACCIAVA?
La diffusione dei bisonti della steppa nelle fasi più rigide delle glaciazioni è confermata dal costante ritrovamento di fossili ben conservati in depositi di grotta, travertino e loess in zone molto distanti fra loro: dall’Italia alla Spagna, dalla Palestina alla Siberia fino allo Yorkshire (Canada).
Sono anche conosciuti casi di mummificazione come accaduto a Blue Babe, un grosso esemplare maschio di 36.000 anni fa il cui corpo venne casualmente scoperto in una miniera dell’Alaska nel 1979 ed è ora esposto al museo di Fairbanks.
Gli studi effettuati dal paleontologo Dale Guthrie hanno rivelato tracce di morsi attribuibili ad almeno due leoni delle caverne: si è potuto così stabilire che l’erbivoro fu aggredito da questi grossi felini che, infine, rinunciarono al pasto non appena la carcassa si congelò e si ricoprì di neve.
Ironia della sorte, anche Guthrie e la sua squadra di ricerca ebbero modo di assaggiare la carne di Blue Babe, ancora commestibile dopo essere rimasta sotto ghiaccio per così tanto tempo, facendone uno speciale “stufato d’antiquario”.
Data la sua tolleranza al gelo, è comprensibile che nei momenti più critici della stagione invernale il bisonte della steppa diventasse il principale bersaglio degli assalti di leoni e di altri predatori che rimanevano ad attendere il suo arrivo, come la tigre dai denti a scimitarra, la iena delle caverne e i lupi.
Anche gli uomini preistorici, ad un certo punto, iniziarono a dargli attivamente la caccia: i primi a farlo con regolarità furono probabilmente quelle specie umane adattatesi fisicamente a sopportare le stesse gelide temperature come l’uomo di Neanderthal e l’uomo di Denisova ai quali seguì, poi, l’uomo di Cro-Magnon che invece confidava nel suo ingegno per poter sopravvivere.
In ogni caso, per tutti loro questo bisonte doveva rappresentare una fonte primaria di sostentamento per l’inverno finendo per assumere un valore simbolico nelle diverse incisioni e pitture rupestri in cui veniva ritratto, come quelle ritrovate a Chauvet, Altamira e Lascaux.
Si conoscono persino alcune peculiari sculture come quella del “bisonte che si lecca una puntura d’insetto” della Dordogna, che vene incisa 15.000 anni fa da un uomo di Cro-Magnon sulla base di un propulsore in corno di renna.
NELLA CAVA PANIZZONI
Nel 1950, le opere di estrazione presso la cava dei Panizzoni, a Monte di Malo (Vicenza), avevano riaperto una piccola cavità carsica che era rimasta coperta per millenni da sedimenti ghiaiosi.
Appresa la notizia, Renato Gasparella del museo del Priaboniano si recò sul posto con la sua lente e il suo inseparabile diario per analizzare il sito e ne realizzò uno schizzo accompagnato da una sezione geologica della cavità, che sarebbe in seguito comparsa in una pubblicazione paleontologica del 2001 inerente a quanto rinvenuto in quella piccola grotta sotterranea.
Dopodiché, chiamò a raccolta alcuni dei suoi amici più fidati quali il professor Angelo Pasa, Sandro Ruffo del museo di storia naturale di Verona e l’allora studente Giorgio Bartolomei con l’obiettivo di estrarre quanto si trovava al suo interno.
Verso la fine di quella prima giornata di scavo, Renato rinvenne alcuni denti assieme a ossa notevolmente robuste che risplendevano alla luce del tramonto e che, a lavoro ultimato, si scoprì appartenere ad un bisonte della steppa.

Il ritrovamento di quei resti (in seguito rimasti per molti anni al Dipartimento di Scienze della Terra di Ferrara per poi trasferirsi nella Sala del Quaternario del museo del Priaboniano) convinse il team a proseguire gli scavi scoprendo che quei sedimenti e i loro fossili in essa contenuti avevano registrato una sorta di “mappa” climatica delle fasi glaciali e interglaciali che avevano colpito la località negli ultimi 1,82 milioni di anni.
Agli occhi degli studiosi, la presenza di bisonti della steppa era una componente significativa per comprendere quanto rapidamente gli habitat stepposi, assenti nei periodi caldi, potevano espandersi per effetto dele glaciazioni fino a toccare il suo culmine proprio con l’ultima (da 115.000 a 11.700 anni fa) che fu la più gelida.
Dopo il ritrovamento della famosa alce Olivia, che rappresentò l’ultima importante scoperta condotta in quel sito, la grotta della cava dei Panizzoni, ormai del tutto svuotata, venne subito colmata con materiale da riporto tant’è che attualmente non è più visibile.
CLONAZIONE?
Agli inizi dell’Olocene (tra 11.700 e 7.500 anni fa), i bisonti della steppa sia nel territorio vicentino che in altre parti d’Europa tornarono a mostrare segni di regressione con la diminuzione dei terreni in cui erano soliti pascolare.
La fine dell’ultima glaciazione fu segnata da un inusuale optimum climatico che, stavolta, si rivelò talmente rapido e devastante da compromettere gli equilibri naturali, colpendo pesantemente persino quelle specie di bisonti che risiedevano alle latitudini più calde.
Il passaggio dal bisonte antico al bisonte americano venne accelerato con una sostanziale riduzione della taglia a svantaggio degli esemplari più grossi, scomparsi definitivamente circa 5.000 anni fa.
Nel frattempo, i bisonti della steppa si erano ritirati verso l’Artico, come del resto avevano fatto per centinaia di migliaia di anni fa, ma ora anche in quei rifugi di supporto il loro habitat si era ristretto come non mai.
L’ultimo esemplare documentato in Alaska risale a 5.400 anni fa ed è quasi contemporaneo dell’uomo di Similaun.
Ma fu nella Russia nord-occidentale che la specie resistette fino a tempi recenti per scomparire completamente soltanto 3.000 anni fa (intorno al 1.000 a.C.).
Ciò significa che se un viaggiatore appartenente alla civiltà egizia o fenicia avesse deciso, di punto in bianco, di farsi una scampagnata in quelle fredde terre si sarebbe potuto imbattere in questi pelosi e irascibili superstiti.
Ad oggi di questo mammifero preistorico, cacciato e venerato dai nostri antenati, rimane traccia soltanto nel patrimonio genetico del bisonte europeo e questo, assieme al buon numero di reperti mummificati da cui poter estrarre il DNA, sarebbe sufficiente secondo alcuni per tentarne la clonazione.
Secondo alcuni, infatti, l’idea di riportare in vita questo e altre specie di grossa taglia permetterebbe di colmare un vuoto nell’attuale fauna eurasiatica ma si tratta di un argomento seguito in modo molto controverso, soprattutto da un punto di vista morale.
E anche se ciò accadesse, difficilmente Monte di Malo sarebbe nelle condizioni di ospitare un animale che, più di ogni altro, seppe trarre beneficio dall’era glaciale…
Testo di Lorenzo De Vicari e Thomas Marchiorato.
Illustrazione di Lorenzo De Vicari, a nome di Fumetti Fossili, pagina a tema paleo-media disponibile sia su Facebook che su Instagram.
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