Lungo la Val Faeda (Vicenza), un baluginante sentiero d’acqua scorre placidamente, lasciando sul suo percorso materiale roccioso e nascondendo insospettabili tracce di un mondo ormai scomparso.
Un’esile figura si fa strada lungo le calme acque cristalline del torrente Poscola, che dall’omonima grotta si dipana in direzione di Castelgomberto, in cerca di quelle testimonianze fossilizzate.
Siamo negli anni ’80 e Vincent Barbin, studente universitario di origini francesi, è giunto per elaborare la sua tesi di laurea prendendo come riferimento la figura di Renato Gasparella, il fondatore del museo del Priaboniano.
Mentre ripensa a tutte le storie e agli insegnamenti fornitigli dal proprio Maestro, il ragazzo scorge tra i ciottoli una roccia da cui sporgono alcuni strani segni biancastri e, anche a costo di scivolare sulla ghiaia bagnata, lo raccoglie tempestivamente.
Fin da subito gli risulta chiaro di aver trovato un fossile e pertanto decide di consultarsi con Gasparella in persona per l’identificazione.
Ma entrambi non riescono a risolvere l’enigma.
Per poter liberare il preistorico reperto dalla morsa della sua capsula di pietra, questo viene trasportato nel laboratorio di preparazioni paleontologiche dell’Université de Reims Champagne-Ardenne (Francia) in modo da ricevere un apposito trattamento di estrazione.
Tra i rumori dei trapani e la luce delle lampade riflessa dagli specilli, Barbin partecipa ai tentativi di liberazione del fossile, collaborando e consultandosi con tecnici e professori universitari.
Gradualmente iniziano ad affiorare delle minuscole ossa ma si rende necessario l’utilizzo del Desogen, una soluzione liquida adibita alla pulizia e alla disinfezione delle superfici e spesso utilizzata per lavori di restauro e talvolta anche come farmaco.
E’ un’operazione che viene effettuata più volte, con ricambi continui di Desogen in attesa di vedere a quale animale appartenevano quei resti.
Quello che emerge, dopo qualche giorno, è lo scheletro di un antichissimo pesce che, dalle analisi, si rivela appartenere ad una specie estinta e fino ad allora completamente sconosciuta alla scienza.
Basandosi sulla natura geologica del luogo del ritrovamento, ovvero negli strati calcarei priaboniani, si è potuto infine stabilire con certezza anche l’età della roccia che lo teneva rinchiuso.
Intanto, nella sua casa a Monte di Malo, Renato Gasparella sta tracciando su un foglio preziosi appunti inerenti ad un minerale, in una stanza ricolma di manoscritti, appunti e campioni geologici, quando dal telefono gli giunge una chiamata in diretta dalla Francia.
E’ Vincent Barbin.
“Ciao Renato, ho una notizia bellissima: il fossile che ho trovato e che ti ho mostrato tempo fa apparteneva ad un pesce vissuto durante il Priaboniano. E non è tutto: è una specie nuova! Io e Mireille Gayet l’abbiamo chiamato Prevolitans faedoensis, al nome della località da dove l’ho trovato, la Val Faeda, a Monte di Malo!”
Scoppiando di felicità, Gasparella si congratula con il suo giovane amico per la scoperta: il suo intuito ha permesso alla paleontologia di rivelare l’esistenza di un nuovo e inaspettato abitante di uno scenario impensabile per l’Italia settentrionale come quello che si presentava durante il tardo Eocene.
Il Prevolitans faedoensis apparteneva alla famiglia dei Dactylopteridae, un gruppo di pesci che comprende specie tutt’ora viventi e lunghi in media tra i 20 e i 50 cm.
La caratteristica più evidente dei Dactylopteridae, tanto nelle forme odierne che in quelle fossili, sono le ampie pinne pettorali a ventaglio che, a differenza dei pesci volanti propriamente detti (gli Exocotidae), sono poco adatte alla planata, venendo invece utilizzate principalmente per intimorire potenziali nemici.
Inoltre, sono sprovvisti della pinna laterale mentre quella caudale è in genere arrotondata e non bilobata.
I rappresentanti attuali di questa famiglia, come Dactyloptena (di cui fa parte la gallinella volante orientale) e Cephalacanthus, risiedono nella regione oceanica dell’Indo-Pacifico e cacciano granchi e pesci più piccoli setacciando i fondali sabbiosi.
Ma il fatto che il loro cugino preistorico sia stato ritrovato nell’entroterra vicentino dimostra che nell’età priaboniana questi territori fossero collegati alla Tetide da canali d’acqua.
Al momento del Prevolitans si conosce un solo esemplare, ovvero l’olotipo (IT-L1) scoperto da Vincent Barbin: si tratta di uno scheletro parziale, costituito dalla parte superiore del cranio, dal cinto scapolare, dal preopercolo e da due vertebre addominali.
Per questo motivo si può solo ipotizzare come dovesse apparire l’intero animale da vivo ma già da quei pochi resti si possono trarre alcune informazioni al riguardo, grazie al confronto con l’anatomia dei suoi parenti attuali.
Sembra che fosse molto simile per aspetto e dimensioni a Dactyloptena dal quale però si distingueva per un capo più tozzo, tondo e leggermente più lungo che largo.
Inoltre, osservando quel cranio, di circa 3,5 cm di lunghezza, si è potuto notare che la fronte fosse più sviluppata della nuca.
Altre piccole differenze risiedevano nell’osso frontale che, rispetto ad un’altra specie come Cephalacanthus, era più convesso ed ospitava lungo di esso un canale sensoriale che rendevano Prevolitans unico rispetto ai suoi “eredi”.
Nel complesso, aveva un’area nasale liscia e tondeggiante con un preopercolare (l’osso che, nel cranio dei pesci, è situato davanti all’opercolo, ovvero la copertura posta a protezione delle branchie) a forma di Y.
Ma, a parte questi dettagli anatomici, è comunque probabile che il Prevolitans avesse abitudini di vita analoghe a quelle delle altre forme di Dactylopteridae, nuotando a ridosso del fondale marino, tra i 10 e i 100 metri di profondità.
Quando era in caccia doveva tenere le pinne pettorali vicino al corpo per poter essere più veloce e idrodinamico ma di fronte ad un aggressore le espandeva in segno di minaccia, nella speranza di non diventare preda a sua volta.
E i pericoli per tutti i pesci che si aggiravano allora in quella parte della Tetide erano molteplici: se Monte di Malo ci ha restituito i denti di uno squalo di proporzioni spaventose, in altre parti del Veneto (tra cui Monte Duello, a Verona) sono stati, invece, recuperati fossili di coccodrilli (Megadontosuchus) e di un grande serpente acquatico di oltre 10 metri (Palaeophis).
Insomma, era un regno di curiosi mostri marini quello in cui si destreggiava il protagonista di questo racconto.
Per poter ammirarne lo scheletro fossilizzato è possibile visitare il Museo nazionale di storia naturale di Francia, a Parigi, dove è tutt’ora custodito, mentre al museo del Priaboniano è esposta in una vetrina la foto del fossile in questione al momento del ritrovamento accanto ad un disegno illustrativo eseguito da Renato Gasparella.
E chissà se mai qualche altro esemplare di questo misterioso pesce del Priaboniano non venga scoperto, rivelando nuovi e incredibili segreti sul suo conto…
Testo di Lorenzo De Vicari e Thomas Marchiorato.
Illustrazione di Lorenzo De Vicari, a nome di Fumetti Fossili, pagina a tema paleontologico disponibile sia su Facebook che su Instagram.
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