OTODUS SOKOLOVI: Il grande squalo dei mari priaboniani

35 milioni di anni fa, nell’ultima fase del periodo Eocene chiamato Priaboniano, le temperature globali stavano calando drasticamente ma nonostante ciò un mare poco profondo si insinuava ancora lungo l’estremità orientale dell’Italia settentrionale. Queste acque relativamente calde e limpide erano connesse alla Tetide, la grande distesa oceanica che allora si estendeva dall’Indocina al Portogallo.

Sotto di esse, nei punti più profondi, si nascondeva un predatore efficiente e dalle proporzioni spaventose che vantava una parentela con specie ancora più impressionanti.

Era l’Otodus sokolovi, uno squalo che a Priabona ha assunto una crescente importanza a livello locale per via degli eccezionali ritrovamenti avvenuti in quella specifica area di Monte di Malo (Vicenza).

Di Otodus sokolovi, invece, si possiedono soltanto alcune vertebre a forma di disco ma, in compenso, abbondano i suoi denti che rappresentano la parte più resistente dello scheletro in quanto ricoperti di smalto e, se si considera che un singolo squalo ne può cambiare a migliaia nell’arco della propria vita, sono anche maggiormente predisposti alla conservazione e al ritrovamento.

Dente superiore ed inferiore di Otodus sokolovi, rinvenuti a Monte di Malo ed esposti al museo del Priaboniano.

I denti di questa specie erano veramente spettacolari: seghettati e lunghi dai 6 agli 8 cm, quelli superiori erano fortemente ricurvi mentre quelli inferiori risultavano dritti.

Una conformazione ideale per afferrare la preda e staccare grossi pezzi di carne ma l’efficacia dei morsi era ampliata dalla presenza di due cuspidi a forma di foglia ai lati di ogni dente e, soprattutto, da una micidiale punta a scalpello capace persino di frantumare le ossa.

Ma lo squalo era della misura giusta per affrontare simili avversari e di attaccare con estrema ferocia altri pesci (suoi simili inclusi), calamari e, soprattutto, mammiferi marini quali sirenidi e cetacei.

Ancora una volta sono i denti a svelare alcuni dettagli interessanti attraverso il confronto con quelli dei suoi cugini odierni come il grande squalo bianco (Carcharodon carcharias) e lo squalo tigre (Galeocerdo cuvier).

Se si conta che questi squali lamniformi, lunghi dai 4 ai 6 metri, presentano denti di forma più esile e con una misura compresa tra i 3,5 e i 7,5 cm si può dedurre, attraverso apposite proporzioni, che Otodus sokolovi dovesse misurare dai 6 ai 10 metri di lunghezza. E’, inoltre, probabile che fossero le femmine a raggiungere le dimensioni massime.

Per un certo periodo, Otodus sokolovi fu uno dei più letali superpredatori dei mari preistorici facendosi protagonista di implacabili battaglie per la supremazia come suggerito dai giacimenti di Dakhla (Marocco) e nella cosiddetta “Valle delle balene” di al-Fayyum (Egitto) da dove provengono i fossili meglio conservati di questa specie.

Infatti, in quegli stessi siti sono stati ritrovati interi scheletri di Basilosaurus con chiare tracce di morsi da parte di squali, a testimonianza di una convivenza tutt’altro che pacifica fra questi due formidabili mostri marini.

Confronto di dimensione tra il grande squalo bianco, lo squalo di Priabona e il più famoso parente di quest’ultimo, il megalodonte. Rispetto ai famelici squali preistorici, quelli moderni sembrano appena dei pesciolini.

Nel museo del Priaboniano sono esposti, in una vetrina appositamente creata per loro, tre denti ben conservati di Otodus sokolovi (due superiori e uno inferiore) che furono scoperti in momenti diversi, tra gli anni ’70 e ’90, negli strati priaboniani di Monte di Malo.

A quei tempi, la località era un po’ la “Venezia dell’Eocene” in quanto sorgeva una laguna, collegata direttamente con il mare aperto, da cui si diramavano diversi canali d’acqua.

Date le sue dimensioni che lo obbligavano ad avere un certo spazio di manovra, lo squalo preferiva di solito restare lungo i margini di questa laguna e, per questo motivo, i prototeri e altre sue potenziali prede riuscivano a difendersi semplicemente rimanendo nei punti in cui l’acqua era troppo bassa per lui.

Ma la situazione poteva sempre cambiare a suo favore, magari a seguito di una piena o durante gli spostamenti delle sue stesse vittime: in simili occasioni, il famelico pesce riusciva ad individuare il bersaglio da colpire attraverso sensi particolarmente sofisticati che gli permettevano di percepirne le vibrazioni in acqua, proprio come succede con gli squali di oggi.

Ricostruzione a grandezza naturale di un esemplare di Otodus sokolovi, esposta al museo del Priaboniano.
Ricostruzione a grandezza naturale di un esemplare di Otodus sokolovi, esposta al museo del Priaboniano.

E sempre prendendo come riferimento gli squali odierni, la colorazione di Otodus sokolovi (scuro nella parte superiore del corpo e più chiaro lungo il ventre) doveva permettergli di mimetizzarsi abbastanza facilmente sia stando sotto che sopra la sua preda mentre cercava di prendere lo slancio necessario per raggiungerla nella speranza che questa non cambiasse traiettoria all’ultimo minuto.

Una volta che lo sventurato animale era a portata di tiro, lo squalo di Priabona la colpiva brutalmente ad una velocità massima di circa 40 km/h e, mentre le fauci cartilaginee si estendevano per compiere la loro azione assassina, gli occhi ruotavano all’indietro e venivano ricoperti da una membrana di pelle allo scopo di proteggerli durante l’attacco.

I denti concludevano il resto del lavoro e se, nel frattempo, molti di essi arrivavano a staccarsi (e, in seguito, a fossilizzarsi per la gioia dei paleontologi) altrettanti erano pronti a sostituirli.

Quelle letali lame, dopo il riallestimento del 2019, fanno ora mostra di sé in un’area interamente dedicata al loro “proprietario”, divenuto simbolo del museo, con tanto di modello a grandezza naturale pendente sul soffitto come se stesse ancora nuotando in tutta la sua imponenza.

UNA FAMIGLIA DI GIGANTI

Dimensioni e potenza sconcertanti accomunavano Otodus sokolovi ad altre specie di otodontidi come Otodus auriculatus (9,5 metri) e Otodus angustidens (11-12 metri). Dal primo si differenziava per la radice meno ricurva dei denti e seghettature più fini lungo i bordi, dal secondo per le cuspidi più prominenti e ricurve.

Ma il suo parente più famoso era anche quello più gigantesco: il megalodonte (Otodus megalodon) la cui lunghezza è stimata tra i 10,5 e i 24 metri a seconda degli esemplari.

I suoi denti, lunghi fino a 19 centimetri e ospitati all’interno di fauci larghe anche 2-2,6 metri, avevano la forma di un triangolo allargato ed esercitavano una pressione senza pari quando assaliva cetacei e altre prede acquatiche.

Fra le sue vittime doveva figurare anche il massiccio mako gigante (Cosmopolitodus hastalis), il cui aspetto era una via di mezzo fra gli otodontidi e gli squali lamniformi odierni.

Dal Miocene medio (16 milioni di anni fa) è documentato un altro suo parente chiamato Carcharodon hubbelli, che diede a sua volta origine ai primi esemplari del grande squalo bianco tra i 6 e i 5 milioni di anni fa. Questi ultimi, per quanto di taglia inferiore rispetto alla media, si rivelarono ben più versatili nella fase di raffreddamento globale che portò alle glaciazioni del Pleistocene e alla conseguente riduzione del livello dei mari.

Sul megalodonte e sugli squali del genere Otodus si hanno testimonianze certe del loro predominio fino al tardo Pliocene (3,6 milioni di anni fa) con alcuni fossili dubbi per il periodo seguente mentre del mako gigante sono stati riconosciuti alcuni denti risalenti al Pleistocene inoltrato (intorno a 1 milione di anni fa) in Alabama.

Contrariamente a certe voci, non ci sono prove concrete di megalodonti ancora a zonzo per i nostri mari ma rimane innegabile quanto l’iconografia di squali così misteriosi e impressionanti abbia attecchito a livello popolare. E anche l’Otodus sokolovi di Priabona gode di una certa fama… quantomeno a livello locale!

Testo di Lorenzo De Vicari e Thomas Marchiorato.

Illustrazione di Lorenzo De Vicari, a nome di Fumetti Fossili, pagina a tema paleontologico disponibile sia su Facebook che su Instagram.

3 commenti su “OTODUS SOKOLOVI: Il grande squalo dei mari priaboniani”

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