Lungo le pendici di una collina nei dintorni di Priabona (Monte di Malo, Vicenza), il Prof. Giuliano Piccoli dell’Università degli Studi di Padova era alla ricerca di fossili nei caratteristici strati del tardo Eocene per cui era nota quella zona.
Era il 1966 e lo studioso riportò alla luce in quel punto sei delicati frammenti ossei che andarono a comporre parte di una piccola mandibola, lunga appena 9 cm e appartenuta ad un antico mammifero marino.
Si trattava del ramo mandibolare destro da cui erano ben visibili le radici di tre denti da latte lasciando intuire che l’animale in questione doveva essere molto giovane quando morì, circa 37 milioni di anni fa.
Analizzandola con attenzione, Giuliano Piccoli intuì che il cucciolo in questione doveva appartenere a qualche forma di sirenide, una famiglia di mammiferi che attualmente conta come soli rappresentanti dugonghi e lamantini ma che in epoca preistorica comprendeva molte più specie.
I “CUGINI” ACQUATICI DEGLI ELEFANTI
Tra i mammiferi che abbandonarono la terraferma in favore di una vita acquatica, i sirenidi sono tra i più insoliti soprattutto per quanto riguarda le loro abitudini.
Il loro aspetto potrebbe, a prima vista, ricordare quello di una foca o di un tricheco e lo stesso nome scientifico scelto per il lamantino, Trichechus manatus, evidenzia le iniziali difficoltà nella classificazione di questi strani animali.
A renderli unici è la loro dieta: sono, infatti, i soli mammiferi marini a nutrirsi esclusivamente di piante acquatiche che “aspirano” dal fondale usando le labbra, simili al tubo di un aspirapolvere. Di conseguenza, il loro stomaco risulta particolarmente voluminoso facendoli appesantire e limitandoli nei movimenti.
Le analisi tassonomiche e genetiche hanno permesso di svelare un dettaglio interessante su questi mansueti animali, dimostrando una loro parentela con mammiferi erbivori terrestri quali i proboscidati.
Riassumendo, un dugongo o un lamantino avrebbero più cose in comune, geneticamente parlando, con un elefante piuttosto che con una foca.
Già nel Paleocene e nel primo Eocene (all’incirca 66-50 milioni di anni fa), i primi rappresentanti di questo gruppo si stavano adattando ad una vita acquatica e fra loro c’era il Pezosiren della Giamaica.
Identificato nel 2001 dall’esperto di mammiferi marini preistorici Daryl Domning, questa creatura aveva aspetto e dimensioni simili a quelli di un dugongo ma, al posto delle pinne, possedeva ancora delle vere e proprie zampe, seppur molto tozze, con le quali poteva spostarsi sia sulla terraferma che sul fondale marino.
Tra il medio Eocene e il primo Oligocene (46-32 milioni di anni fa) i sirenidi si erano diffusi in tutto il mondo, diversificandosi in numerose specie talvolta molto diverse.
Lungo le coste del continente europeo, forme che avevano grossomodo mantenuto la struttura di partenza e lo stile di vita anfibio, come il Protosiren, convivevano pacificamente con altre che avevano già modificato gli arti anteriori in pinne e fatto scomparire quelli posteriori riducendoli a piccolissime ossa vestigiali, come nel caso di Sirenavus e di Prototherium.
UN MISTERO DA RISOLVERE
Delle forme europee finora elencate, il Prototherium è di certo quella maggiormente conosciuta per via del buon numero di scheletri fossili giunti fino a noi dalla Germania, dalla Spagna e anche dall’Italia.
In particolare, nella regione veneta questo animale è ben documentato nei giacimenti eocenici di Monte Duello (Verona), dove il naturalista Achille De Zigno rinvenne l’olotipo nel 1875, a cui seguirono altri ritrovamenti a Lonigo e fra i colli Berici.
Ma non solo: nei suoi appunti, lo stesso De Zigno riferì che anche a Priabona aveva ritrovato alcune costole di quei sirenidi senza, tuttavia, fornire altre indicazioni in merito a questa scoperta.
Era forse di un giovane prototerio la piccola mandibola ritrovata da Giuliano Piccoli?
Dal raffronto con altri esemplari, non c’era alcun dubbio ma restava ancora da chiarire a quale delle due specie di tale genere apparteneva: se a P. veronense, istituita da De Zigno, o a P. intermedium, al quale è stato attribuito buona parte del materiale fossile di età priaboniana.
Al momento della descrizione, il Prof. Piccoli determinò il reperto come Prototherium cf. veronense (cf., scritto in minuscolo e a caratteri normali, sta per “confronta” in quanto l’attribuzione rimane dubbia) ma, sulla base delle più recenti revisioni sistematiche, sarà auspicabile una sua ulteriore ridescrizione.
UN ERBIVORO PIGRO MA SOCIEVOLE
Il Prototherium misurava 2 metri e mezzo di lunghezza e il suo corpo, grosso e tozzo, era sorretto in acqua da zampe anteriori trasformatesi in natatoie e da una robusta coda con due pinne orizzontali. Il suo aspetto doveva ricordare quello dell’attuale dugongo da cui, però, si distingueva per il muso più allungato e le labbra carnose più piatte.
Continuando a prendere come riferimento i suoi parenti odierni è possibile ipotizzare che fosse una creatura tranquilla e schiva che trascorreva le proprie giornate a poltrire e a nutrirsi di piante acquatiche e talvolta anche di molluschi e pesciolini.
Pare che fosse solito frequentare le acque costiere e che si inoltrasse negli estuari e nei fiumi per potersi cibare anche della vegetazione terrestre presente sulla riva. In quelle zone, il fondale era troppo basso per poter essere raggiunti dai giganteschi predatori che si trovavano in prossimità del mare aperto e le femmine, leggermente più grandi dei maschi, potevano occuparsi dei propri cuccioli con relativa sicurezza.
Ciò, inoltre, spiega come mai la mandibola del giovane Prototherium si trovasse in quello specifico punto di Monte di Malo, all’epoca parzialmente sommerso da una laguna che fungeva da ostacolo naturale per il passaggio del temuto Otodus sokolovi, sempre pronto a colpire alla minima occasione.
Essendo animali dall’indole socievole, è comunque probabile che i prototeri e altre specie affini trovassero un’ulteriore protezione restando in gruppo e ciò era molto utile soprattutto quando era necessario spingersi più in profondità, addentrandosi nei territori di caccia dei loro nemici.
Evidentemente, queste soluzioni difensive permisero ai sirenidi preistorici di continuare a prosperare con un certo successo nel sistema marittimo-fluviale dell’Italia settentrionale, tant’è che in queste regioni (Veneto compreso) si registrarono ancora segni della loro permanenza non soltanto in tutto il seguente Oligocene ma anche nel Miocene e nel Pliocene. A tal proposito, altre specie di questo “angolo mediterraneo” da citare sono sicuramente Halitherium e Metaxytherium.
NASCITA DI UN MITO
Se fino al XVIII secolo sopravviveva ancora nel Mare Artico la ritina di Steller (Hydrodamalis gigas), vero e proprio gigante dell’era glaciale che poteva raggiungere la straordinaria lunghezza di 10 metri ma che fu rapidamente sterminato senza pietà dall’uomo, ad oggi la famiglia dei sirenidi è formata dal dugongo (Dugong dugon) e dal lamantino (Trichechus manatus).
Capaci anch’essi di risalire i fiumi, si trovano principalmente nelle basse acque costiere e paludose dell’Indocina, dell’Africa occidentale e nell’area compresa tra la Florida e la costa orientale del Sud America.
Come suggerisce il nome della loro famiglia, pare che essi siano stati una delle possibili fonti d’ispirazione dietro al mito delle sirene.
Infatti, capita che, salendo in superficie per respirare, tengano il dorso in verticale e poiché le femmine, dotate di mammelle pettorali, tendono ad allattare i propri piccoli tenendoli fra le pinne in quella posizione, potrebbero essere state accidentalmente scambiate per figure dai tratti antropomorfi.
E mentre questi goffi e pacifici erbivori hanno contribuito a dare origine ad un mito, la mandibola di un cucciolo preistorico, probabile protagonista di scene altrettanto idilliache, è ora custodita presso il Museo della Scienza e dell’Uomo di Padova.
Illustrazione e testo di Lorenzo De Vicari a nome di Fumetti Fossili, pagina a tema paleontologico visitabile sia su Facebook che su Instagram.
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