E’ il 1955.
Sulla cava “Calcara” di Monte di Malo (Vicenza) è ormai calata la notte.
Nei giorni precedenti, i lavori di estrazione avvenuti in quella zona hanno accidentalmente riportato alla superficie sedimenti di svariate migliaia di anni ma ora tutto tace.
Di colpo un fascio di luce illumina quello stesso terreno, dissipando le tenebre mentre un uomo, il “Lupo Solitario” come molti lo chiamavano, si muove nella cava, armato di torcia.
E’ in quel punto rinviene uno strano oggetto simile ad una roccia, liscio, robusto e di forma tabulare con alla sommità depressioni a forma di mezza luna.
Non c’è alcun dubbio: si tratta di un fossile e per l’esattezza di un premolare superiore che, per via delle sue classiche mezze lune sulla superficie occlusale, viene definito in biologia selenodonte (“dente lunare”).
Quel dente apparteneva ad un rinoceronte vissuto lì ben 130.000 anni fa, in pieno Pleistocene.
UN RINOCERONTE GRANDE COME UN CERATOPSIDE
I rinoceronti sono una famiglia di mammiferi dell’ordine dei perissodattili che già dall’Eocene comprendeva un gran numero di specie: si andava da scattanti erbivori dalla struttura quasi equina (Hyracodon) a bizzarri bestioni semi-acquatici dotati di lunghe zanne sporgenti (Chilotherium) o di un piccolo corno sul muso (Teleoceras).
Ma c’era anche il gigantesco Paraceratherium, il più grande mammifero terrestre con dimensioni (5,5 metri di altezza al garrese per 15-20 tonnellate di peso) che non avevano nulla da invidiare a quelle dei brontosauri.
Invece, il rinoceronte di Merck (Stephanorhinus kirchbergensis), la specie a cui apparteneva il dente ritrovato da Gasparella, non sarà stato altrettanto immenso eppure era anch’esso un colosso per il suo genere.
Lo scheletro più completo, scoperto in Polonia, è alto 1,82 metri. Tuttavia, sulla base di altri esemplari più grandi ma incompleti si ritiene che potesse raggiungere i 2 metri e mezzo di altezza al garrese e pesare anche 3-4 tonnellate, contro i 2 metri e le 2,3 tonnellate dell’attuale rinoceronte bianco africano (Ceratotherium simum).
Dotato di due minacciosi corni sul muso, questo grosso mammifero apparteneva ad un genere di rinoceronti (Stephanorhinus) che tra il Miocene e il Pleistocene si era diffuso nel Vecchio Mondo.
Il suo rappresentante più noto è certamente il rinoceronte etrusco (Stephanorhinus etruscus), del peso di una tonnellata e mezzo e i cui resti furono rinvenuti per la prima volta nel XIX secolo presso i depositi fossiliferi del Valdarno (Toscana).
Il rinoceronte di Merck somigliava molto a quest’ultimo ma, oltre a essere molto più grosso e robusto, si distingueva per le sue zampe decisamente più tozze.
Ad accomunare il rinoceronte di Merck e il rinoceronte etrusco erano, invece, i denti che non erano sviluppati in altezza come nella maggior parte dei rinoceronti attuali (la cui forma serve a sminuzzare più facilmente erbe dure e abrasive) ma larghi e rigonfi.
Questo tipo di dentatura suggerisce che questi animali preferissero nutrirsi di gemme e foglie tenere che potevano trovare in aree prevalentemente boschive.
Proprio per questa peculiare abitudine alimentare, lo stesso rinoceronte di Merck viene talvolta soprannominato “rinoceronte della foresta“. Il suo nome ufficiale, invece, deriva dal medico tedesco Carl Heinrich Merck che per primo ne studiò alcuni resti ritrovati in Germania nel 1784.
MIGRAZIONI OBBLIGATE
Dalla fine del Pliocene (2,6 milioni di anni fa) iniziò una ciclica alternanza di fasi glaciali e interglaciali, caratterizzata dalla periodica avanzata dei ghiacci e dal loro successivo ritiro, che proseguì per l’intero Pleistocene.
A differenza del rinoceronte etrusco che era presumibilmente glabro, quello di Merck non temeva i cali di temperatura portati dalle glaciazioni per via di una leggera peluria che ne ricopriva il corpo e poteva così continuare a cercare cibo nella neve fin dov’era possibile.
Non appena le condizioni ambientali peggioravano ulteriormente, anch’esso optava per migrare verso sud e cedeva così parte del suo areale a specie simili ma più resistenti al freddo come il rinoceronte della steppa (Stephanorhinus hemitoechus) e il più famoso rinoceronte lanoso (Coelodonta antiquitatis).
Quando il clima tornava a farsi più mite con le fasi interglaciali, la distribuzione geografica dei vari animali cambiava nuovamente e il rinoceronte di Merck poteva tornare nelle foreste che erano ricresciute sui terreni resi precedentemente stepposi dal gelo.
A trarre profitto da questi continui spostamenti furono soprattutto gli uomini preistorici che in sporadiche circostanze sfidarono la forza bruta dell’enorme rinoceronte.
Lo confermano, ad esempio, i profondi tagli riscontrati sulle ossa di alcuni esemplari nel sito di Guido San Nicola, in provincia di Isernia (Molise), dove sono stati trovati anche strumenti bifacciali datati tra i 400 e i 345.000 anni fa e attribuiti all’Homo heidelbergensis.
In una formazione rocciosa della Turingia (Germania), invece, sono emersi altri cumuli di ossa risalenti a circa 130-115.000 anni fa che mostravano segni di macellazione da parte degli uomini di Neanderthal.
E’ possibile che anche l’esemplare di Monte di Malo avesse subito la stessa sorte?
Non è possibile stabilirlo in quanto si dispone di un solo dente e non è stato ritrovato alcun indizio che potrebbe far pensare ad un simile scenario.
SEMPRE PIU’ FREDDO
Con l’inizio dell’ultimo periodo glaciale (circa 110.000 anni fa), il clima nell’emisfero settentrionale si fece ancora più rigido ma alcuni rinoceronti di Merck, che evidentemente non erano riusciti a migrare verso sud, ricorsero ad altre strategie di sopravvivenza che nessuno si sarebbe sospettato di immaginare per un erbivoro abituato a climi più miti.
E’ il caso dell’esemplare di Altai (Siberia) di cui è stato rinvenuto soltanto il cranio: datato a circa 40.000 anni fa, è uno dei pochi membri della sua specie ad essere stato registrato a latitudini così estreme dove la vegetazione prevalente era costituita da piante ben più coriacee di quelle che cresceva nelle foreste.
Eppure era riuscito a resistere al freddo intenso e a trovare il proprio fabbisogno per molti anni e, attraverso l’analisi chimica della sua dentatura, si è potuto saperne di più rivelando una dieta a base di muschi e di erbe a foglie larghe, ovvero le sole piante tenere che l’animale avrebbe potuto trovare con facilità anche negli inverni più rigidi.
Ma altri dettagli sono ancora sconosciuti: che avesse sviluppato una pelliccia più folta del normale per non patire il gelo?
Più frequenti, invece, i ritrovamenti avvenuti nella Cina meridionale, forse in quanto zona temperata e più in linea alle esigenze del rinoceronte della foresta durante le fasi glaciali rispetto all’Europa o alla Siberia.
Alcuni fossili provenienti dalla grotta del Migong testimoniano la sua presenza almeno fino a circa 14.000 anni fa.
E, restando sempre nell’Estremo Oriente, oggi si trova il suo parente vivente più prossimo: il rinoceronte di Sumatra (Dicerorhinus sumatrensis), un brucatore alto appena un metro e mezzo e ultimo rappresentante di un proprio genere strettamente correlato a quelli del rinoceronte di Merck e del rinoceronte lanoso.
Nel Pleistocene, la specie in questione aveva anch’essa goduto di una notevole espansione in un’ampia area dell’Asia ma, mentre i suoi cugini cominciarono ad estinguersi, la sua popolazione andò incontro ad pesante ridimensionamento.
Oggi, questo “superstite” risiede unicamente nelle foreste del Sud-Est asiatico, dove è gravemente minacciato dall’azione umana.
UNO STRANO REGALO DI NATALE
Presso il museo del Priaboniano è conservato il quarto premolare superiore di un rinoceronte di Merck: il reperto fu rinvenuto nel 1955 da Renato Gasparella, nel punto in cui i cavatori, nel pieno della loro fatica quotidiana, avevano casualmente rinvenuto quelle che secondo loro erano generiche “ossa di animale”.
Non riconoscendone l’importanza a livello scientifico, essi gettarono questi oggetti che andarono in gran parte perduti.
Quella sera Renato Gasparella, allora abile boy scout conosciuto come il “Lupo Solitario”, era seduto ad un ristorante dopo aver accompagnato un gruppo in escursione quando ad un tratto sentì qualcuno parlare di strane ossa.
A quel termine, Renato si girò e con la coda dell’occhio intravide alcuni operai di ritorno dalla cava “Calcara”.
Incuriosito, si avvicinò a loro per chiedere di queste misteriose “ossa di animali” e i cavatori, tra il fumo delle sigarette e il tintinnare dei bicchieri, raccontarono l’accaduto. Comprendendo che quello ritrovato era in realtà parte del corpo di un grande animale, Renato non ci pensò due volte e, armato di torcia, si recò sul sito di scavo.
Dopo una ricerca estenuante, Renato individuò l’unico reperto scampato alla “pulizia” dei cavatori che venne poi riconosciuto come il dente di un rinoceronte di Merck, ora esposto nella sala del Quaternario e ancora in attesa di una datazione più accurata (per il momento stimata intorno ai 130.000 anni fa, ovvero durante la fase interglaciale Riss-Würm).
L’Università “La Sapienza” di Roma ha, inoltre studiato un calco di quel dente, pubblicandolo sulla rivista “Gortania: geologia, paleontologia, paletnologia”.
Il 25 dicembre 2015, il museo del Priaboniano è stato omaggiato con una copia di tale, prestigiosa rivista: un bel regalo di Natale per la paleontologia del territorio vicentino…
Testo di Lorenzo De Vicari e Thomas Marchiorato.
Illustrazione di Lorenzo De Vicari, a nome di Fumetti Fossili, pagina a tema paleontologico disponibile sia su Facebook che su Instagram.
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